Subito dopo il conseguimento della laurea in Scienze Politiche, chiesi alla docente con cui avevo fatto la tesi, in Sociologia delle comunicazioni di massa, di collaborare portando come dote la mia voglia di costruire un know how epistemologico legato alle comunicazioni di massa. Le mie motivazioni erano anche legate al fatto che da poco avevo conseguito l'iscrizione all'albo dei giornalisti pubblicisti, e consideravo le varie forme del comunicare come il mio ambito umano e professionale. Proposi alla mia docente, una serie di laboratori per gli studenti, diciamo così un pò innovativi, fatti attraverso gli strumenti multimendiali che il laboratorio di lingue della facoltà possedeva. I temi erano quelli legati al rapporto tra media e potere, sia dal punto di vista storico, partendo dalla nascita della radio, che dal punto di vista della cronaca, analizzando le campagne e i personaggi politici del momento. Erano gli inizi degli anni novanta, e tangentopoli era già esplosa, Berlusconi iniziava a presentarsi sullo scenario politico. La mia docente, che devo sicuramente ringraziare poiché mi ha dato la possibilità di costruirmi un bagaglio, che ho portato poi sul mercato del lavoro, sia dal punto di vista della formazione che del marketing politico, accettò le mie proposte con molta curiosità. La mia base di partenza fu proprio la tesi di laurea, attraverso cui capì una cosa, sulla base degli insegnamenti di McLuhan, che nel novecento all'emergere di un nuovo medium o di un nuovo sistema mediatico la società di massa si configura in modo diverso. Ecco che divisi il secolo passato in quattro fasi diverse, ognuna innescata dalla nascita di un nuova comunicazione. Da questa base elaborai alcuni laboratori, concentrandomi prevalentemente sul periodo radiofonico e televisivo, che ebbe come esperienza più emblematica l'analisi della prima guerra nel golfo che attraverso delle videocassette da me registrate, ricostruì come un vero è proprio serial.

 

LE QUATTRO SOCIETA' DI MASSA

 

PIANO DI LAVORO

 

Teoria del Medium e rifondazione dei criteri storiografici

La Società letterata

La Galassia Gutemberg

La Galassia elettrica

Società di massa e storiografia

La divisione del lavoro sociale

La Società di massa

Teoria dei Sistemi e produzione in serie

L’industria culturale

Valori e pseudovalori

La stampa popolare

Il cinema

La stanza degli echi e la prima società di massa

La società di massa tra democrazia e totalitarismo

Le culture di massa

La crisi anomica del capitalismo

Atomizzazione delle classi sociali

La propaganda nazista e la mistificazione dei valori

Il New Deal

Il Nuovo Ordine Mondiale e la seconda società di massa

Il secolo americano 

La rottura del patto fiduciario

La New Television e la terza società di massa

La Società planetaria liberale dell’informazione

La Società in rete e la quarta società di massa

 

 

Teoria del Medium e rifondazione dei criteri storiografici

 

            La storiografia tradizionale ha inteso leggere i processi di trasformazione storica delle società in relazione a codici epistemologici condivisi dalle accademie proprie alla cultura occidentale. La suddivisione dei periodi storici si è così tramandata nelle istituzioni scolastiche sulla base degli eventi geopolitici che tutti gli occidentali riconoscono come preistoria, storia antica, storia medievale, storia moderna, storia contemporanea…

 

            A cavallo tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta nasce un approccio epistemologico, che studia i mezzi di comunicazione, il quale legge la storia dell’uomo applicando modelli e criteri del tutto nuovi, e che comunque danno un quadro globale del modo in cui la comunicazione si è evoluta fino ai giorni nostri.

 

            Quella di cui stiamo parlando è la “Teoria del Medium”, il cui più importante artefice è Marshall McLuhan. Il postulato da cui egli parte è il seguente: i mezzi di comunicazione non modellano, attraverso il loro contenuto, la personalità e la cultura in modo totale, ma contribuiscono, mediante nuovi criteri di alfabetizzazione, al cambiamento sociale nel suo insieme.

 

            McLuhan parte dal presupposto che storicamente l’emersione di un nuovo medium o sistema di comunicazione altera quello precedente, senza farlo scomparire ma ricodificandolo. Secondo lo studioso canadese, la nascita di un medium è strettamente connessa ad una riformulazione dello spazio sociale in relazione all’equilibrio sensoriale colpito. Per cui quando in una cultura si inserisce un nuovo medium esso modifica la funzione, i significati e gli effetti dei media precedenti. In tal modo egli rilegge la storia dell’uomo in tre grandi fasi, ognuna legata all’emersione di un medium: Società letterata, l’emittente dei messaggi è unicamente l’Autorità morale o politica, per cui i messaggi non possono che essere direzionali verso il popolo e quindi sacralizzati, per questo si può parlare di uomo diretto; Galassia Gutemberg, nasce il torchio a stampa, modificando i processi di scolarizzazione e i processi di produzione, l’uomo inizia a prendere coscienza di se stesso, per cui si può parlare di uomo autodiretto; Galassia elettrica, corrisponde al novecento, poiché si ha l’invenzione dell’elettricità e quindi dei medium elettrici, radio, televisione e media interattivi trasformeranno l’uomo in eterodiretto, nel senso che esistono più autorità potenziali a dirigere l’uomo...

 

Questa nuova lettura della storia viene descritta in termini cosmici poiché, appunto, la nascita di un medium, come ad esempio il torchio a stampa, condiziona l’intero pianeta. Il nuovo medium costringe le società strutturate ed evolute a servirsene, ricodificando le rispettive organizzazioni sociali. Se a questo rapportiamo la lettura tradizionale della storia ci accorgiamo che, ad esempio, il crollo dell’impero romano segna l’avvio del medioevo solo per quelle culture che furono protagoniste di quel trapasso storico, in Cina o in Giappone il concetto di medioevo non è riconoscibile, mentre è riconoscibile la rivoluzione che in questi paesi compie l’invenzione di un mezzo di comunicazione come il torchio a stampa.

 

La Società letterata

 

            McLuhan: “Le popolazioni non letterate passano la loro esistenza quasi del tutto in un mondo dei suoni, mentre i popoli dell’occidente europeo vivono in buona misura in un mondo visivo. I suoni sono in un certo senso oggetti dinamici, essi indicano sempre una realtà dinamica: movimenti, eventi, attività nei confronti dei quali l’uomo, allorché si trova sottoposto ai pericoli della vita, deve sempre rimanere all'erta. Mentre per gli europei in genere vedere vuol dire credere…”

 

            Come osserva McLuhan la società orale o illetterata è una società tribale, dove viene a svilupparsi una cultura dell’orecchio, fatta di simultaneità e di circolarità. La società orale è dunque una società chiusa, dove le popolazioni hanno esperienze mitiche, che vanno in profondità, in cui tutti i sensi vivono in armonia.

 

            Con la nascita dell’alfabeto fonetico iniziò il processo di detribalizzazione umana, poiché il passaggio alla traduzione dei suoni in un codice visivo ha introdotto l’uomo in un mondo di significati totalmente trasformati.

            Coloro che per primi sperimentano l’affermarsi di una nuova tecnologia, sia essa l’alfabeto o la radio, rispondono calorosamente poiché i nuovi rapporti tra i sensi che all’improvviso si instaurano per la dilatazione tecnologica dell’occhio e dell’orecchio, pongono davanti a loro un mondo nuovo e sorprendente che fa intravedere un nuovo e vigoroso rinserrarsi, ovvero un nuovo modello di intreccio tra tutti i sensi insieme. Ma lo shok iniziale gradatamente svanisce, mentre l’intera comunità assorbe le nuove abitudini percettive in tutti i suoi settori di lavoro e di scambio. La vera rivoluzione ha luogo in questa seconda fase di adattamento di tutta la vita individuale e sociale al nuovo modello di percezione creato dalla nuova tecnologia”.

 

            La rottura della fiducia totale nella comunicazione orale permette agli individui di diventare più introspettivi, razionali e individualistici, sviluppando così il pensiero astratto.

 

La Galassia Gutemberg

 

            Con la nascita del torchio a stampa per opera di Gutemberg, questo processo detribalizzante viene accentuato, determinando molte caratteristiche di razionalità occidentale e del comportamento civilizzato.

 

            L’invenzione della tipografia, come sottolinea McLuhan, è un esempio dell’applicazione della conoscenza di arti tradizionali a un particolare problema visivo, essa segna il confine tra la tecnologia medievale e quella moderna.

 

            Il concetto di immaginazione, proprio alle arti rinascimentali, verrà praticamente riadattato alle possibilità di visualizzazione delle stesse. In tal senso la meccanizzazione dell’arte fu probabilmente la prima riduzione in termini meccanici del movimento, in una serie di fotogrammi statici.

 

“In tal senso la tipografia è per molti versi assimilabile al cinema… Il lettore muove la serie di lettere stampate davanti a se a una velocità compatibile con la comprensione dei movimenti nella mente dell’autore”

 

            Ma la stampa fu anche il primo esempio di produzione di massa, oltre che la prima merce uniforme e ripetibile. La catena di montaggio dei caratteri mobili rese possibile un manufatto che aveva le caratteristiche di ripetibilità e di uniformità proprie di un esperimento scientifico.

 

L’avvento del torchio a stampa corrisponde all’avvento del pensiero lineare:    

“Ciascuna parola stampata rappresenta una serie di istruzioni per la realizzazione di uno specifico ordine lineare di movimenti che una volta eseguiti risultano in una successione di suoni”.

     

       La riduzione di tutta l’esperienza ad un solo senso, la vista, come risultato della tipografia sarà rivoluzionata nel ventesimo secolo con la nascita della società elettrica e l’avvento del pensiero circolare.

 

La Galassia elettrica

 

            “Dopo tremila anni di espansione in ogni settore e di crescente alienazione specializzata nelle innumerevoli estensioni del corpo umano e delle sue funzioni, il nostro mondo, con drammatico rovesciamento di prospetti, si è ora improvvisamente contratto. L’elettricità ha ridotto il globo a poco più che un villaggio e, riunendo con repentina implosione tutte le funzioni sociali e politiche, ha intensificato in misura straordinaria la consapevolezza delle responsabilità umane. E’ questa componente che modifica la posizione dei negri, degli adolescenti e via dicendo. Non è più possibile contenere politicamente questi gruppi sociali entro limiti determinati; essi sono ora, grazie ai media elettronici, coinvolti nella nostra vita, come noi nella loro”.

 

            McLuhan ci dice quattro cose fondamentali. La prima è che i media elettronici hanno la funzione di prolungare i sensi del sistema fisiologico:

 

            “Oggi, dopo un secolo d’impiego tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro sistema nervoso centrale in un abbraccio globale, che almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio. Ci stiamo rapidamente avvicinando alla fase finale dell’estensione dell’uomo: quella cioè, in cui, attraverso la simulazione tecnologica, il processo creativo di conoscenza verrà collettivamente esteso all’intera società umana, proprio come, tramite i vari media, abbiamo esteso i nostri nervi…”

 

            L’altra grande intuizione è che il “medium è il messaggio”. E’ ricorrente in tal senso l’esempio della luce elettrica, poiché essa è un medium senza messaggio, quindi senza contenuto. Nel momento in cui la luce elettrica viene usata per una operazione chirurgica o per una partita di calcio, queste attività diventano contenuto della luce elettrica senza del quale non potrebbero esistere.

 

            Poi, McLuhan fa una divisione tipologica tra diversi medium, suddividendoli in “mezzi caldi” e “mezzi freddi”. Sono caldi quei mezzi a bassa definizione di immagini come la radio, mentre sono freddi quelli ad alta definizione visiva come la televisione.

 

            Infine lo studioso canadese, alla fine degli anni sessanta, conia il concetto di “villaggio globale”, osservando che l’elettricità ha in qualche modo ricreato le dinamiche sociali del villaggio antico, dove la circolazione delle informazioni era pressoché immediata, tutti sapevano tutto non appena succedeva, abolendo lo steccato che separava il pubblico dal privato. La televisione ha annullato i confini spazio-temporali riducendo il pianeta alla stessa stregua di un villaggio, poiché un qualsiasi fatto pubblico o privato, anche se accade dall’altra parte del mondo è possibile saperlo immediatamente…  

   

Società di massa e storiografia

 

            Seguendo la definizione storiografica compiuta da McLuhan, diventa interessante scomporre il XX secolo, che tradizionalmente è codificato come “storia contemporanea”, in relazione all’avvento di nuovi mezzi di comunicazione, che come abbiamo visto, hanno bisogno di processi di alfabetizzazione planetari, costringendo le società evolute ad adeguarvisi.

 

            Nel ventesimo secolo si riproducono le stesse dinamiche dei secoli precedenti, con la differenza che le trasformazioni, in seguito all’invenzione dell’elettricità, sono velocissime. Nell’arco di un secolo, infatti, possiamo contare quattro tipologie sociali diverse, segnate dall’avvento di mezzi e forme di comunicazione di massa diversi.

 

            La “prima società di massa” è la società radiofonica, che caratterizza la drammatica fase che abbraccia le due guerre mondiali. L’ avvento di massa della televisione, che possiamo far risalire agli inizi degli anni cinquanta, rappresenta la “seconda società di massa”, che vede l’imposizione del modello statunitense in tutto il mondo occidentale, sia dal punto di vista politico-economico, che comunicativo. Con l’inizio degli anni ottanta si ha la “terza società di massa”, è qui infatti che il concetto di villaggio globale viene compiutamente realizzato, in tutto il mondo evoluto, grazie alla nascita della Tv via cavo, con una sua maggiore espansione alla fine del decennio, in seguito alla “caduta dei muri”, che integra i paesi ex comunisti dell’est Europa all’interno della “Società planetaria liberale dell’informazione”. Infine gli anni novanta possono essere codificati come “quarta società di massa”, poiché il mondo viene sconvolto dall’invenzione di Internet, un sistema di comunicazione di massa anziché un mezzo.

 

La divisione del lavoro sociale

 

            Verso la fine del XIX secolo il processo di assestamento del sistema capitalistico si realizzava, grazie alla seconda rivoluzione industriale, riscrivendo i rapporti sociali ed economici all’interno delle comunità nazionali.

 

            Sul piano dei conflitti ideologici e dell’evoluzione dei sistemi di pensiero, sviluppatisi durante l’ottocento, tra positivismo, liberismo e pensiero critico, si ha uno svecchiamento dei meccanismi d’interpretazione del mondo sociale. Uno degli esponenti più illustri di questo processo di trasformazione è il sociologo Emile Durkheim, che, autoinvestendosi ideologo della terza repubblica francese, aveva ereditato la visione funzionale del positivismo comtiano.

 

            Il punto centrale del pensiero di Durkheim è il ruolo giocato dall’apparato sociale e non tanto, come in Marx, dal sistema economico. Pur avendo coscienza che la società è di per se coercitiva, Durkheim avvertiva l’esigenza di trasformare tale funzione coercitiva in regolatrice, riconvertendo le ineguaglianze naturali in eguaglianze sociali. Se il sistema economico crea disparità dev’essere compito della società mettervi riparo, al di là degli individualismi e degli egoismi fomentati, a suo parere, dai liberisti.

 

            Durkheim conia il termine di “solidarietà organica”, all’interno di quello che diventerà uno dei testi sacri della sociologia classica: “La divisione del lavoro sociale”, scritto nel 1893. Per lo scienziato francese la divisione del lavoro, intesa come elemento del processo d’industrializzazione, è a fondamento della coesione sociale, assumendo una valenza di religiosità. Nella società a solidarietà organica ogni individuo può rafforzare la propria individualità, in relazione alla differenziazione del lavoro, che però deve essere funzionale all’unità del corpo sociale.

 

            La divisione del lavoro sociale viene elaborata da Durkheim in relazione al suo interesse per la modernità. Più specificatamente egli osserva il passaggio dalla società agricola, che definisce a “solidarietà meccanica”, alla società industriale a solidarietà organica, appunto. I processi di trasformazione tra quelli che chiama “Tipi Sociali”, sono così rapidi e radicali tali da provocare “Anomia”. Durkheim in sostanza dice che il sistema sociale è impreparato alla trasformazione in società industriale, e questo crea un vuoto di norme, all’interno del quale cresce una sensazione collettiva di mancanza di scopi, di mete. Questo a causa di quella che definisce “folle corsa al capitalismo”.

 

            Scrive Durkeim: “Vi è una particolare sfera della vita sociale dove l’anomia si trova attualmente allo stato cronico ed è il mondo del commercio e dell’industria… Dal momento in cui il produttore può pretendere di avere come cliente il mondo intero, di fronte a tali prospettive illimitate come può avvenire che le passioni si lascino circoscrivere come nel passato? (…) Da qui deriva l’effervescenza regnante in questo settore della società e ora estesa anche ai rimanenti settori. Lo stato di crisi e di anomia vi è costante, staremmo per dire normale. La corsa in cui è lanciata l’economia industriale rivela l’inutilità di un inseguimento senza fine”.

 

            Trent’anni dopo, l’avvento dei totalitarismi in Europa e il New Deal negli Stati Uniti saranno le risultanti della crisi anomica del capitalismo.

 

La Società di massa

 

            La società di massa è il prodotto del processo innescato dalla rivoluzione industriale a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Un processo questo che potremmo definire di geografia sociale. Partendo dall’assunto che il centro della società è polarizzato dalle istituzioni, che fondano la loro legittimità su valori ad essa propri, possiamo dire che questi valori erano condivisi da una ristretta cerchia della società, mentre la massa era relegata all’interno della periferia sociale.

 

In seguito alla rivoluzione industriale la massa si sposta al centro della società, in linea col fenomeno di omologazione delle classi sociali, poiché il sistema di produzione risponde ai bisogni di tutti, anche perché i processi di inurbamento hanno determinato nuovi equilibri nelle comunità sociali.

 

La massa diventa dunque, nel bene e nel male, protagonista, non soltanto in quanto entità economico-produttiva, dove la fabbrica assurge a simbolo di contrazione spazio-temporale, ma la ridefinizione degli assetti sociali investe anche il piano politico con l’avvento delle idologie di massa… Ecco come Gustave Le Bon spiegava il fenomeno nel 1895: “Non più di un secolo fa, la politica tradizionale degli stati e la rivalità tra i principi costituivano i principali fattori degli avvenimenti. L’opinione delle folle, nella maggioranza dei casi, non contava affatto. Oggi, invece, le tradizioni politiche, le tendenze individuali dei sovrani e le rivalità esistenti tra questi ultimi hanno ben scarso peso. La voce delle folle è divenuta preponderante. Detta ordini al re. E’ nell’anima della folla, e non più nei consigli dei   principi, che si preparano i destini delle nazioni”.

 

Teoria dei Sistemi e produzione in serie

 

            Nell’ambito degli studi sui sistemi di organizzazione industriale, predomina l’approccio che può essere ricondotto alla “Teoria dei sistemi”, che individua l’azienda come un sistema aperto, costituito da sottosistemi e interagente con il macrosistema, in quanto ambiente sociale esterno. Il postulato della teoria sistemica ottocentesca, individuava il “Sistema” nella comunità e il sottosistema nell’azienda. Iniziava in tal modo ad intravedersi la scomposizione tra gestione ed esecuzione, nell’ambito dell’approccio chiamato “strutturale”, poiché attenta alla funzionalità strutturale della forza lavoro.

 

            Agli inizi del novecento, l’elemento innovativo del processo d’industrializzazione può essere considerata la “produzione in serie” dei beni di consumo, indirizzati, appunto, alla massa sociale. Questo tipo di organizzazione industriale è frutto di un nuovo modo d’intendere la funzione aziendale nella società. L’azienda non è più un sottosistema ma un “macrosistema”, una macchina esclusiva e complessa, che occorre rendere funzionante ed efficiente in tutte le sue parti. In questo contesto i sottosistemi diventano i reparti aziendali.

 

            Questo nuovo approccio da vita al filone manageriale della teoria dei sistemi, che punta sull’”organizzazione scientifica del lavoro”, il cui ideatore fu Taylor. Col Taylorismo l’azienda viene considerata un tutto unitario, una grande macchina, abbiamo detto, fatta di pezzi meccanici (gli impianti) e di “pezzi umani” (i lavoratori), ognuno collocato secondo ruoli e funzioni, preordinati strategicamente.

 

            Taylor aveva elaborato alcuni capisaldi del nuovo sistema aziendale, rappresentati da Charly Chaplin nell’opera cinematografica “Tempi moderni”, dove la catena di montaggio, simbolo del taylorismo, inghiotte il lavoratore, rappresentando una società reificata e alienata.

 

            Sono tre le fasi dell’organizzazione tayloristica…

 

Tabelle differenziali

Direzione dell’officina

Principio d’eccezione

 

Uno degli aspetti più significativi dell’organizzazione scientifica del lavoro è la “Black-Box”, su cui viene governato il macrosistema aziendale, in base ai parametri degli inputs e ouputs.

 

                                      Inputs                                 Ouputs

 

                                       Forza lavoro                       Salari

                                        Capitali                              Profitti

                                       Macchinari                         Manufatti

 

           Se la Black-Blox tayloristica è tipica della società industriale di inizio secolo, oggi, nella società globale dell’informazione, la teoria dei sistemi ha individuato nuovi parametri attraverso cui viene governata l’azienda. Il suo autore è Majo…

 

 

                     Nuovi Inputs                                         Nuovi Ouputs

 

                      Informazioni politiche                          Propaganda

                     Informazioni legislative                        

                     Informazioni commerciali                     Pubblicità

                     Informazioni finanziarie

 

L’industria culturale

 

            L’organizzazione industriale tayloristica non s’indirizza esclusivamente alla creazione di beni di consumo materiali, ma anche alla creazione di “messaggi culturali” che rivestono un valore legato alla sfera simbolica: nasce l’industria culturale. Questo processo va ovviamente di pari passo allo sviluppo delle tecnologie, aprendo le porte a quella che Marshall Mc Luhan ha definito “Galassia elettrica”, con la nascita del cinema e della radio.

 

            Con il compimento della società industriale si vengono a strutturare due sistemi paralleli, quello economico e quello culturale, che hanno come elemento comune la massificazione dei consumi. La produzione afferente al sistema culturale è quella che viene definita “beni simbolici”, che circolano nel mercato culturale e hanno funzione di merci e significazioni.

 

            Sull’industria culturale si fonda il senso stesso del sistema sociale contemporaneo, dove “il consenso della massa sociale è funzionale al consumo di beni”.

 

            La “Teoria critica” della scuola filosofica di Francoforte definiva il sistema all’interno del quale confluiscono i beni simbolici come “cultura di massa”, dando a questo termine un’accezione negativa. Attraverso la cultura di massa, affermavano i francofortesi, i mezzi di comunicazione generano “bisogni indotti”, che debbono essere consumati a tutti i livelli della stratificazione sociale, e questa diventa, per questo gruppo di pensatori, una nuova forma di dominio sociale.

 

            La “massa sociale” diventa quindi obiettivo commerciale dell’industria culturale. Una massa sociale all’interno della quale rientrano tutti i settori della stratificazione sociale; e gli strumenti che permettono tale omologazione culturale, ma anche produttiva, sono i media di massa, ridefinendo il sistema sociale in sistema di “consenso-consumo”.

 

            La stampa popolare, il cinema e la radio, nella prima parte del secolo, la televisione generalista, la Tv via cavo e internet nella seconda fase del novecento sono gli “strumenti della conoscenza”, per usare un termine caro a McLuhan, attraverso cui vengono veicolati i bisogni della massa sociale.

 

            Ma allora, è proprio vero, come affermavano i francofortesi, che i mezzi di comunicazione di massa sono potenti manipolatori delle coscienze? Gli studi della “Communication Reaserch” non hanno avallato questa tesi, per cui oggi si può affermare, dopo mezzo secolo di ricerca, che sono gli effetti a lungo termine dei media a influenzare il comportamento umano. In un’altra parte del manuale affronteremo approfonditamente queste tematiche, per il momento accenniamo al lavoro di J. Klapper sugli effetti limitati dei media, poiché lo studioso afferma che in una società stabile le comunicazioni di massa hanno in genere l’effetto di rafforzare le opinioni preesistenti, mentre in una società debole, instabile o in crisi, tendono a produrre un mutamento, convogliando impulsi esistenti, inespressi o informi.

 

            L’analisi di Klapper è utile come chiave di lettura per interpretare la storia delle comunicazioni di massa a cavallo tra le due guerre mondiali, quando il sistema capitalistico europeo e statunitense vive una vera e propria crisi anomica, dove i media di massa diventano fondamentali per ricostruire i sistemi sociali, determinare nuovi sistemi di regole, in linea ai modelli culturali afferenti alle rispettive aree geografiche. Questo processo viene innescato usando gli strumenti dell’industria culturale per la vendita dei beni simbolici. Ecco che per la prima volta la sfera commerciale con la sfera politica s’incontrano.  

 

Valori e pseudovalori

 

            Prendendo in prestito le definizioni di Emile Durkeim possiamo definire un valore come un sentimento collettivo che rende frequente e funzionale le interazioni sociali, di modo che gli individui possano ritrovarsi con piena dedizione di se stessi nella collettività. Per pseudovalore s’intende la mistificazione del valore con la stessa possibilità di proporre ideali anche in negativo, ma pur sempre capaci di incentivare una forma attivante di solidarietà; ad esempio il piacere come mistificazione della felicità.

 

            La mistificazione del valore può avvenire attraverso le funzioni esercitate dai media, poiché strumento di produzione in serie dei messaggi. In una situazione di anomia sociale, cioè di assenza di norme, i mass media possono con incisività intervenire a sostituirsi come elemento portante della densità morale di un paese.

Il rapporto quindi tra società di massa e valori è possibile spiegarlo attraverso la logica dell’identificazione e dell’integrazione.

 

La stampa popolare

 

            “Fini e sostegni commerciali hanno indirettamente esercitato un influenza notevole sui contenuti, rendendo alcuni settori della stampa implicitamente favorevoli al mondo degli affari, al consumismo e alla libera iniziativa se non alla destra politica… E’ importante notare, come risultato della commercializzazione, l’emergere di un nuovo tipo di giornale: più leggero e piacevole, più sensazionale nella sua attenzione verso il crimine, la violenza, gli scandali e i divi, con un pubblico di lettori in cui prevalgono largamente gruppi di persone di basso livello economico e di istruzione” (McQuail).

 

            Il tipo di esperienza descritta da McQuail nasce agli inizi del secolo: il giornale popolare, che negli Stati Uniti rappresenta il primo salto verso la società di massa. Nato dal giornale liberale ottocentesco, è il primo segnale della nascente industria culturale, ma è anche la costruzione di un nuovo potere, poiché, diversamente dal secolo precedente ha allargato quello che oggi chiameremmo “target”. Orson Wells, con uno dei più grandi capolavori della storia del cinema, racconta di questo “Quarto potere”, attraverso il delirio di onnipotenza di un magnate dell’editoria. Wells lo chiama “il cittadino Kane”, ma la sua opera cinematografica prende ispirazione dalla storia di uno dei fondatori dell’industria culturale americana, nel settore del giornalismo popolare: William Randolph Hearst.

 

            Il ritratto del cittadino Kane è il ritratto di quella America in cui il cinema hollywoodiano, la radio, il taylorismo e la Ford esprimono la nuova tipologia sociale.

 

Il cinema

 

            Il cinema, meglio di qualsiasi medium di massa, negli anni venti, ha saputo esprimere il rapporto tra archetipi e stereotipi dei modelli insiti nei vari sistemi culturali. Proprio per questa ragione ci sembra interessante capire come attraverso il cinema siano state rappresentate le culture di massa di Stati Uniti e Germania, in quanto chiavi di lettura delle modalità antitetiche con cui verrà risolta la crisi anomica che investe i due paesi alla fine degli anni venti.

           

        Iniziamo questa analisi con un postulato paradigmatico di McQuail…

 

“Fu parzialmente una risposta sia all’invenzione del tempo libero sia alla domanda di modi economici che permettessero alla famiglia di spendere il tempo libero. Di conseguenza fornì alla classe lavoratrice alcuni benefici culturali già goduti dalle classi superiori… Occorre inoltre considerare quegli elementi ideologici ed implicitamente propagandistici che si trovano, appena dissimulati, in molti film destinati all’intrattenimento popolare, fenomeno che sembra indipendente dalla presenza o dall’assenza di libertà all’interno della società”.

 

            Detto questo, è necessario utilizzare uno strumento comparativo tra le diverse tipologie cinematografiche e relativi sistemi culturali. In questa ottica ci vengono incontro Galli e Rositi, i quali hanno studiato questo tipo di problematiche…

 

            “La contrapposizione di fondo tra cinema americano e cinema tedesco non è già nella contrapposizione tra valori collettivi espliciti di segno diverso (più democratici in Usa, più autoritari in Germania); ma nella contrapposizione di valori che investono la sfera del privato (dai problemi morali, all’amore, al denaro), che sfociano in un maggiore accento nel cinema americano rispetto a quello tedesco, su una serie di elementi con caratteristiche euforiche anziché disforiche”.

 

            Il cinema della Germania di Weimar, nei suoi contenuti più intimamente disforici è legato al movimento espressionista, che proietta totalmente l’artista verso l’espressione dei sentimenti interiori. L’espressionismo cinematografico è meglio connotato nella fase del muto, dove si andavano ad affermare modalità narrative fantasticamente e mostruosamente deformanti la realtà. Uno dei maestri dell’espressionismo cinematografico tedesco è Fritz Lang, il quale coglie il senso più profondo di questo approccio attraverso due pellicole cult: “Metropolis” (muto) e “Il mostro di Dusseldorf” (parlato).

 

            Il cinema americano a tendenza euforica è un cinema ottimistico, definito dell’ “happy end”, per il prevalere di narrazioni fantastiche, che rappresentavano ideali e modelli di azione eccedenti le concrete quotidiane condizioni di vita del pubblico medio, ma che non erano tali da impedire ogni concreta possibilità di identificazione imitativa…

 

            In definitiva possiamo dire che negli anni venti alla cultura di massa di tipo hollywoodiano se ne accosta un’altra di tipo tedesco, che dagli anni quaranta in poi si incontreranno all’interno della medesima industria culturale.

 

La stanza degli echi e la prima società di massa

 

“La radio tocca intimamente, personalmente, quasi tutti in quanto presenta un mondo di comunicazioni sottintese tra l’insieme scrittore-speaker e l’ascoltatore. E’ questo il suo aspetto immediato: un’esperienza privata. Le sue profondità subliminali sono cariche di echi risonanti di corni tribali e di antichi tamburi. Ciò è insito nella natura stessa del medium, per il suo potere di trasformare la psiche e la società in un'unica stanza degli echi…” (McLuhan).

 

 In questo passo McLuhan offre un’analisi della radio, dibattuta e controversa dalla successiva pubblicistica massmediologica. L’astrazione archetipica che ne fa lo studioso canadese attraversa la metafora della stanza degli echi: spazio di fusione tra psiche e società.

 

            “La radio, come qualunque altro medium, ha un suo manto che la rende invisibile. Ci si presenta apparentemente in una forma diretta e personale che è privata e intima, mentre per ciò che più conta è una subliminale stanza degli echi che ha il potere magico di toccare le corde remote dimenticate…La radio è un’estensione del sistema nervoso centrale alla quale può essere accostato soltanto il discorso umano. Non merita forse riflessione il fatto che sia particolarmente accordata su quella prima estensione del nostro sistema nervoso centrale, su quel mass medium aborigeno che è la lingua parlata?” (McLuhan).

 

            McLuhan sottolinea con forza l’importanza dell’immagine auditiva della radio e lo fa accostando due personaggi che negli anni trenta debbono il loro successo alla “stanza degli echi”, protagonisti di una sorta di “neotribalizzazione” delle società evolute: Orson Welles e Adolf Hitler.

 

            “La famosa trasmissione di Orson Welles sull’invasione dei marziani era una semplice dimostrazione della portata onnicomprensiva e totalmente coinvolgente dell’immagine auditiva della radio. E fu Hitler a trattare sul serio la radio alla maniera di Welles. L’esistenza politica di Hitler deriva direttamente dai modi di rivolgersi al pubblico. Ciò non significa che tali media trasmettessero effettivamente al popolo tedesco i suoi pensieri. Questi ultimi in realtà avevano pochissima importanza. La radio fornì la prima grande esperienza di implosione elettronica, cioè di un totale capovolgimento degli indirizzi e dei significati della civiltà alfabeta occidentale” (McLuhan).

 

            C’è un particolare aspetto da sottolineare sulla trasmissione di Welles “La guerra dei mondi” , e cioè che la data di emissione risale al 1938, mentre Hitler va al potere nel 1932. E allora perché McLuhan sottolinea che è Hitler ad utilizzare la radio alla Welles e non viceversa? La risposta più plausibile può essere sintetizzata nel fatto che Hitler utilizza la radio in linea con l’uso che ne fa l’industria culturale hollywoodiana…

 

            Nella mitologia hollywoodiana il posto ricoperto da Orson Welles è atipico rispetto alle grandi star del cinema americano, poiché, a parte la geniale filmografia, dai ritratti d’ambiente alle messe in scena shaksperiane, può essere considerato un grande esperto di comunicazione. Con “The war of the worlds” e “Quarto potere” Welles fu il grande narratore della prima società di massa, colui il quale spiegò tra gli anni trenta e quaranta in che tipo di società il mondo evoluto era entrato.

 

            La guerra dei mondi era un radiodramma, prodotto dalla CBS, su una ipotetica invasione dei marziani nel New England. La storia, sceneggiata oltre che da Welles da Howard Kock, non veniva presentata dall’emittente come un normale programma di fiction, ma veniva simulata come una cronaca giornalistica in diretta. I dialoghi erano dunque tra giornalisti impersonati da attori della compagnia del futuro cineasta. Le situazioni erano raccontate mirando all’effetto realtà: dalla trasmissione precedente interrotta bruscamente, alle interruzioni audio per significare la cattiva ricezione del messaggio, a tutti i generi di effetti sonori che potessero rappresentare il panico. Non una descrizione dei marziani, non una notizia inerente alle dinamiche dell’invasione; tutto era giocato sulle sensazioni sonorizzate.

 

            Il risultato della trasmissione radiofonica fu una notte di pazzia americana. L’evento fu recepito dagli ascoltatori per reale, scatenando il panico di massa, e a nulla valsero le comunicazioni radiofoniche che ristabilivano la realtà: la gente volle credere di stare per soccombere ai marziani.

 

            Come dice Omar Calabrese, “La guerra dei mondi” può essere considerato uno studio scientifico sulle comunicazioni di massa, precorrendo McLuhan in relazione al fatto che il medium è il messaggio e descrivendo Hitler sull’importanza della forma sul contenuto.

 

            “Una trasmissione che coinvolge milioni di persone con un’impressione di contemporaneità ed eccezionalità provoca reazioni illogiche ed incontrollabili esplosioni emotive che bloccano il ragionamento… Come poteva essere riuscita una burla così enorme? Evidentemente solo se il pubblico modernizzato dalle tecnologie, razionalizzato dallo scientismo del progresso, covava per contrappeso un profondo desiderio di irrazionale…” (Calabrese).

 

            Cerchiamo di capire a tal punto attraverso quali meccanismi si è sviluppata l’operazione radiofonica di Welles, utilizzando l’analisi di Rudolf Arnheim, uno dei massimi esponenti della psicologia dell’arte, che agli inizi degli anni trenta aveva studiato il linguaggio del mezzo radiofonico, interessandosi in particolar modo della fiction.

 

            Interessante può essere l’approccio di Arnheim, in primo luogo perché la sua opera è precedente all’evento in questione, ma anche perché è il primo studio scientifico sul mezzo radiofonico, a pochi anni di distanza dalla sua nascita… 

            Arnheim s’interessa al radiodramma, mediante una continua comparazione con la fiction teatrale e cinematografica, osservando che l’arte uditiva della radio è più idonea dell’arte visiva per rappresentare lo svolgimento drammatico, questo perché “le percezioni acustiche che ci comunicano dei cambiamenti, a differenza di quello che succede nel campo ottico, prevalgono così notevolmente sulle percezioni che ci rimandano a qualcosa di persistente e immutato” (Arnheim). 

 

            Tra campo visivo e campo acustico cambia la connotazione del testo, poiché nel secondo caso la parola assurge a suono, all’interno di un mondo di suoni. Ecco che ritorna quell’effetto “tribalizzante” di cui parla McLuhan: “Quest’arte uditiva ci porta indietro fino ai tempi preistorici, molto prima dell’invenzione del linguaggio umano vero e proprio, le grida di richiamo e di avvertimento degli esseri viventi erano intellegibili solo in quanto erano suono per la forza espressiva di questo suono, così come succede ancora oggi per il linguaggio animale” (Arnheim). 

 

            I suoni, quindi, come sceneggiatura del mezzo radiofonico… Entriamo così all’interno di una dimensione suggestiva, una sorta di semantica del suono, strutturata su un codice che non è segnico ma sonoro, che su queste modalità espressive forma il linguaggio del mezzo. Ed è proprio in relazione al tipo di modalità espressive proprie alla radio che è possibile accostare il bisogno di irrazionalità dell’uomo tribale con l’uomo-massa.

 

La società di massa tra democrazia e totalitarismo

 

            Col termine “Società di massa” abbiamo individuato quel tipo di civiltà all’interno del quale l’elemento centrale si struttura attorno al protagonismo, sulla scena politica, sociale ed economico di tutti i membri della collettività, nell’ambito di un processo di sviluppo industriale e tecnologico. Come sottolinea Cesare Mannucci, in un suo celebre saggio, “certi studiosi chiamano in genere società di massa quelle società che sono sorte dalla prima guerra mondiale, e in cui le masse sono in fermento, ma che non necessariamente sono società industrializzate…”

 

            Prescindendo da un’analisi semantica, il significato terminologico crea una problematica di tipo empirico, poiché i parametri che ci hanno portato a definire il concetto di società di massa possono essere riscontrati sia nelle società democratiche che in quelle totalitarie.

 

            In che termini, dunque, dobbiamo intendere il concetto di “società di massa”? Il pensiero contemporaneo si è sviluppato sulla base di due approcci critici alla società di massa: “critica aristocratica” e “critica democratica”. Nel primo caso troviamo l’avversione delle società europee ai mutamenti del dopo rivoluzione francese, imperniati sulla difesa dei valori dell’èlite, in opposizione alla partecipazione nella società di massa. Nel secondo caso abbiamo l’opposizione all’avvento del totalitarismo nelle versioni nazista e sovietica, sulla difesa dei valori democratici contro il dominio totale delle èlite. Vediamo i caratteri dei due orientamenti. Per i “democratici” le condizioni della nascita della società di massa sono: l’atomizzazione sociale, predisposizione all’emergere di nuove ideologie, il totalitarismo. Un sistema, quindi, in cui la collettività è predisposta ad essere mobilitata dalle èlite. Per i critici aristocratici, affinché vi sia società di massa occorrono tre condizioni: egualitarismo, disponibilità a forme antiaristocratiche di governo, predominio delle masse.

 

            In ultima analisi possiamo dire che gli elementi delle due tipologie sono complementari, per cui il concetto di società di massa fuoriesce dai due approcci ideologici per identificarsi con una civiltà che comunque, a prescindere dai singoli sistemi politici, si trova a condividere le medesime dinamiche di geografia sociale, il taylorismo, una crisi anomica fisiologica al sistema stesso. Ed è proprio la risposta a questa crisi che differenzia le due tipologia.   

 

Le culture di massa

 

            La problematica sulla connotazione della società di massa, fino a questo momento, solo apparentemente può dirsi risolta poiché dobbiamo aggiungere un altro elemento al nostro ragionamento. Se, insomma, possiamo parlare di società di massa sia in relazione ai regimi totalitari che a quelli democratici, non sembra possibile il medesimo adeguamento per ciò che concerne un altro concetto, quello della “cultura di massa”…

 

            Dice Edgar Morin: “Si può asserire che una cultura costituisce un corpo complesso di norme, simboli, miti e immagini che penetrano l’individuo nella sua intimità, ne strutturano gli istinti, ne orientano le emozioni. Tale penetrazione si attua secondo rapporti mentali di proiezione e di identificazione polarizzati sui simboli, sui miti e le immagini della cultura come sulle personalità mitiche o reali che ne incarnano i valori. Una cultura fornisce dei punti di appoggio immaginari alla vita pratica, dei punti di appoggio pratici alla vita immaginaria; alimenta l’essere fra reale e immaginario, che ciascuno secerne all’interno di sé (la propria anima), l’essere fra reale e immaginario che ciascuno secerne all’esterno di sé e di cui si ammanta (la propria personalità)… L’immaginario si struttura secondo alcuni archetipi: ci sono dei modelli guida dello spirito umano, che ordinano i sogni, e particolarmente i sogni razionalizzanti costituiti dai temi mitici o romanzeschi…L’industria culturale persegue la dimostrazione a suo modo, standardizzando i grandi temi romanzeschi, riducendo archetipi in stereotipi. Praticamente si fabbricano romanzi sentimentali divenuti coscienti e razionalizzati”.

 

            Con Morin entriamo nel vivo della questione, poiché diviene a questo punto possibile una cultura di massa, prodotta secondo schemi di fabbricazione industriale, in linea con quelle che sono non tanto le caratteristiche del sistema politico, ma i modelli guida e gli archetipi del sistema culturale. Se a ciò si aggiunge quel processo che Morin definisce “cracking”, cioè che la cultura di massa avendo un pubblico indifferenziato non può essere portatore di posizioni politiche, si arriva alla conclusione che nel regime nazista la cultura di massa è preesistente, in linea con i modelli culturali del paese, e che questi si trasformino in una fase seguente nella propaganda del terzo Reich.

 

            Dobbiamo necessariamente considerare la cultura di massa in origine, come una cultura nazionale che incorpora la stratificazione delle classi sociali all’interno di una unica entità, appunto la massa. Solo dopo la seconda guerra mondiale, con l’avvento della televisione, la cultura di massa si trasformerà lentamente in cultura planetaria occidentale…

 

  La crisi anomica del capitalismo

 

            Abbiamo visto all’inizio della trattazione come la sfrenata corsa liberista dei paesi che componevano il centro e la semiperiferia del sistema capitalistico, porta, agli inizi del secolo Emile Durkeim a prevedere una crisi normativa del sistema.

 

            Molto semplicemente, la ricostruzione di questo tragitto storico può essere descritta partendo dall’assunto che dall’unificazione tedesca si compone uno scenario internazionale teso verso una gara impazzita al colonialismo, poiché fonte di ricchezza produttiva. Tutto questo avviene in uno scontro trasversale tra nuovo sistema industriale e vecchi, ormai decadenti, imperi centrali. La prima guerra mondiale produrrà la sepoltura degli imperi centrali, ma segnerà anche avvio della crisi anomica del capitalismo.

 

            Uno schema interpretativo sulle modalità di crisi del sistema capitalistico ce lo fornisce Danniel Chirot: “La prima guerra mondiale diede origine a gravi tensioni finanziarie nel centroeuropeo. Per finanziare le spese belliche tutte le società del centro (tranne gli Stati Uniti) e i paesi semiperiferici belligeranti contrassero forti prestiti, esaurirono le loro riserve e inflazionarono rapidamente le loro monete. Gli sforzi fatti dalla Gran Bretagna per ritornare alla stabilità finanziaria e prebellica dopo il 1918 causarono gravi danni alla sua economia, la quale non poté recuperare le sue perdite… In Germania, ai pesanti debiti di guerra s’aggiunsero le esorbitanti riparazioni stabilite dagli alleati vittoriosi. Impossibilitata a pagare, la Germania stampò cartamoneta senza alcun valore dando luogo ad una inflazione che, nel 1923, spazzo via i risparmi di molti cittadini tedeschi della classe media… Le nuove entità politiche create nell’Europa orientale con i resti del caduto impero austro-ungarico, avevano anch’esse economie deboli e strutture creditizie inadeguate, e quando vennero coinvolte nel sistema bancario mondiale ne fu distrutto definitivamente l’equilibrio… La situazione fin qui descritta venne peggiorata dal fatto che, quando il Regno Unito perse la sua posizione di dominio economico, gli Stati Uniti non vollero assumere la leadership finanziaria. Il mondo, in effetti, era privo di un banchiere centrale e questo vuoto contribuì pesantemente al caos che si determinò negli anni trenta…”

 

Atomizzazione delle classi sociali

 

            Il processo di crisi europeo influisce all’interno dei tessuti sociali come logica conseguenza, per cui si viene a creare una caduta complessiva di valori, legata alla sfera pubblica, in special modo nella Germania prehitleriana. Inizia così a sorgere insofferenza nei confronti del sistema capitalistico in generale, che si avverte soprattutto per ciò che concerne il sistema politico. Per un altro verso, viene messa in luce la debolezza del sistema parlamentare, insediatosi dopo la caduta dell’impero, le cui prerogative erano proprie al sistema dei partiti delle nazioni europee. Tali prerogative o meglio illusioni, come dice la Arendt, erano due: “La prima era che il popolo nella sua maggioranza prendesse parte attiva agli affari di governo e che ogni individuo simpatizzasse per l’uno o per l’altro partito (…) invece le masse politicamente neutrali e indifferenti, potevano costruire una maggioranza anche in una democrazia (…) in cui solo una minoranza dominava ed era rappresentata in Parlamento. La seconda illusione era che queste masse apatiche non contassero nulla, che fossero veramente neutrali e formassero lo sfondo inarticolato della vita politica nazionale…”

 

            In tal contesto fu semplice per i movimenti totalitari dimostrare che la “democrazia parlamentare” non corrispondeva alla realtà del paese, e che questa costruiva il suo dominio sulla “maggioranza silenziosa” e non sulla costituzione.

 

            L’effetto di questa crisi anomica del sistema capitalistico e delle sue istituzioni politiche produsse una “atomizzazione delle classi sociali”, poiché, all’interno della maggioranza silenziosa, composta dalle classi meno abbienti tradizionalmente esclusi dalla partecipazione politica, venne inglobata anche la borghesia.

 

            Hanna Arendt: “Questo carattere apolitico della base dello stato nazionale venne messo in luce soltanto quando il sistema classista cadde in rovina provocando la recisione degli innumerevoli fili che avevano legato il popolo al corpo politico. Il crollo del sistema classista implicò automaticamente il crollo del sistema dei partiti, soprattutto perché questi, essendo organizzazioni di interessi non ne avevano più da rappresentare (…) Il crollo della muraglia protettiva classista trasformò le maggioranze addormentate, fino ad allora a rimorchio dei partiti, in grande massa, disorganizzata e amorfa, di individui pieni d’odio che nulla avevano in comune tranne la vaga idea che i rappresentanti della comunità fossero in verità dei folli alleatisi con le potenze dominanti, per portare nella loro stupidità o bassezza fraudolenta, tutti gli altri alla rovina”.

 

La propaganda nazista e la mistificazione dei valori

 

            L’avvento del nazionalsocialismo è forse l’evento storico più tragico del ventesimo secolo, ma al tempo stesso rappresenta l’avvio di un processo che vede una stretta interconnessione tra potere e media di massa. Infatti, attraverso una revisione dei modelli collettivi, fu possibile creare una drammatica osmosi tra potere e opinione pubblica.

            La Germania, nel periodo precedente all’avvento del nazismo, versava in una situazione di anomia valoriale, derivato dal crollo del regime parlamentare di Weimar. In una situazione di anomia, si attenua, fino a scomparire, la concezione ideale del valore, si allentano i meccanismi di aggregazione e la massa sociale perde il senso dei valori ideologici. “L’uomo di massa” non è più in possesso della cognizione del valore, per cui l’ingegnere delle anime o il demagogo (Hitler) è il solo che può restituirgli questa cognizione, non dei valori, ma degli pseudovalori, funzionali unicamente agli scopi del demagogo stesso. In questo modo il nazismo riuscì a creare l’anima collettiva dei tedeschi, perduta in seguito alla lunga crisi sociale e parlamentare.

 

            L’uomo che organizzò e pianificò la strategia comunicativa del nazionalsocialismo fu Joseph Goebbels, ministro della propaganda. Fu lui ad intuire che attraverso la radio si poteva ricostruire l’anima collettiva tedesca. La sua strategia si basò su tre diversi livelli…

La radio – Ancora prima della presa del potere, Goebbels impostò gran parte della propaganda radiofonica coniando lo slogan “Normalizzazione”, parola che i tedeschi volevano sentirsi dire. Con la presa del potere il ministro fece seguire a Hitler un corso di dizione fonetica, al fine d’impostare una precisa tecnica oratoria. Frasi imperative e didascaliche, scandite a voce alta e con tono irremissibile. A questo si aggiunga l’uso di sottofondo musicale, spesso su musiche wagneriane, così da costruire un effetto persuasivo ad alta valenza suggestiva. La voce di Hitler entrava nelle case con effetti misteriosi e dirompenti, amplificando le potenzialità demagogiche dell’ingegnere delle anime.

 

Le tecniche dello spettacolo – La necessità era quella di ricorrere ad ogni strumento di comunicazione al fine di esaltare e ridondare tutto il sistema di significazione simbolica dell’ideologia nazista. In tal senso Goebbels si affidò alle grandi scenografie in mimesi con le tecniche dello spettacolo. Il ministro ricostruì i simboli pangermanici, rendendo sempre più solidale il popolo, ormai sospinto al misticismo, col potere. L’esempio della croce uncinata è emblematico, poiché era la risultante della semplicità grafica, tale che chiunque poteva disegnarla, ma anche segnale eccitante che faceva nascere nella massa sociale una reazione nervosa.

Sonoro e immagine – Goebbels fece uso del sonoro in sincrono con l’immagine, il cinema insomma, utilizzando, a fini propagandistici la UFA, cioè la struttura cinematografica di stato.

 

            Pavlov spiego la strategia comunicativa del nazismo in termini di “metavalore”, in base alla quale viene spiegata la dinamica dei riflessi condizionati, attraverso cui è possibile identificare in quattro impulsi la spinta fondamentale ai comportamenti umani: combattivo, sessuale, parentale, alimentare.

            Ciacotin invece spiegò la penetrazione del messaggio propagandistico attraverso lo schema piramidale…

                               

Lo schema piramidale di Ciacotin illustra la dinamica narrativa attraverso cui viene strutturata la sintesi del messaggio. Lo slogan e il simbolo non possono essere fine a se stessi ma devono possedere degli elementi di significazione per creare senso di identità. Quindi, per colpire il bersaglio il messaggio deve avere un contenuto di senso che sintetizzi i processi rituali, mentre il simbolo deve tradurre la connotazione del messaggio in termini di semplicità: è in sostanza la nascita del marketing politico.                                

   

Il New Deal

 

            “La Tv è un medium freddo che rifiuta i personaggi caldi, i problemi scottanti e le persone imposte dai media caldi… Se negli anni di Hitler la Tv fosse già stata diffusa su larga scala, egli sarebbe rapidamente sparito. Se fosse arrivata prima non ci sarebbe mai stato neanche Hitler… E’ possibilissimo che neanche Franklin Delano Roosevelt sarebbe andato bene alla Tv. Ma egli aveva imparato a servirsi del medium caldo della radio per le sue freddissime conversazioni dal caminetto. Prima però aveva dovuto riscaldare contro di se il medium caldo della stampa, al fine di creare l’atmosfera più adatta alle sue chiacchierate. Imparò insomma a servirsi dei giornali in stretto rapporto con la radio. La Tv gli avrebbe sottoposto una miscela politico-sociale di componenti e di problemi completamente diversi. Forse si sarebbe divertito a risolverli, in quanto aveva quel tipo di atteggiamento scherzoso necessario per capire i rapporti nuovi e ancora oscuri” (McLuhan).

 

            Franklin Delano Roosevelt, può essere sicuramente ricordato come uno degli uomini più importanti del XX secolo, egli fu il Presidente degli Stati Uniti d’America nel quindicennio che lega la Grande depressione americana alla fine della seconda guerra mondiale. Fu lui a ricostruire il sistema capitalistico occidentale, quando in Europa la sfiducia verso la democrazia parlamentare porterà ai totalitarismi.

 

Roosevelt ereditò un paese, in seguito al crollo della Borsa di Wall Streat, in piena bancarotta economica. Il sistema economico-finanziario americano era pressoché annullato. Non esistevano più riserve monetarie, non esisteva più lavoro, il circuito produttivo era stato immancabilmente interrotto. La sua ricetta fu quella del “New Deal”, la nuova era, avviata applicando le teorie economiche keynesiane. Egli ricostruì in un decennio, il tessuto economico statunitense attraverso l’intervento diretto dello stato nell’economia.

 

            Dal nostro punto di osservazione, cioè quello delle comunicazioni di massa, la figura di Roosevelt non può, paradossalmente, essere scissa da quella di Hitler… Tutt’e due ereditarono sistemi economici e culturali infettati dai germi della crisi anomica del capitalismo. Ambe due senza l’uso dei mezzi di comunicazione di massa dell’epoca, e soprattutto senza la radio, non sarebbero riusciti a prendere il potere e a mantenerlo. Unica differenza, non di poco naturalmente, è che usarono ricette politiche e comunicative assolutamente antitetiche, iniettando anticorpi valoriali agli antipodi.

 

            La lettura che McLuhan fa dei due la dice lunga sulle modalità comunicative della radio. Se è comprensibile che per un dittatore possa essere difficile prendere il potere e mantenerlo col medium freddo della televisione, perché la stessa cosa dovrebbe essere per un uomo di pace come Roosevelt? Semplicemente perché il Presidente degli Stati Uniti era sulla sedia a rotelle. Di per se questa condizione non ha nessun valore dal punto di vista politico, ma poteva averlo, certamente, dal punto di vista dell’immagine. E’ difficile pensare, soprattutto per la cultura dell’epoca, che un uomo con handicap, che quindi aveva bisogno di altri per badare a se stesso, potesse traghettare il più potente paese del mondo dalla rovina alla rinascita.   

 

            Grazie alla radio ciò fu possibile. Roosevelt aveva inventato i “discorsi dal caminetto”, veicolati dalla radio, attraverso cui, col suo tono pacato, sicuro e rassicurante ricostruì i valori del sistema America. Gli americani trovarono in lui un vecchio e saggio padre su cui porre la fiducia.

            “New Deal”, quindi, fu il suo slogan, sicuramente lo slogan più indovinato, nella storia della comunicazione americana, poiché divenne una vera e propria ideologia del nuovo stato, e di un nuovo tessuto politico, costruito anche in nome di quella libertà negata in Europa.

 

            Negli Stati Uniti, negli anni trenta, arrivarono, infatti, in fuga dal vecchio continente, poiché perseguitati, “capitali e cervelli ebraici”. E qui che nasce la singolare interazione tra la nazione americana e l’impresa della comunicazione, saldatasi sulla difesa dei valori inviolabili dell’uomo. Valori che in Europa vengono calpestati, mentre negli “States”, innalzati a sistema culturale. Valori che si rafforzeranno una volta entrati in guerra, nel ’41, con gli alleati. L’America era già uscita dalla grande depressione, e comunque questa scelta la stampa la difese a spada tratta. Giornali e radio operarono un processo di formazione dell’opinione pubblica, creando produzioni quotidiane sulla guerra e inviando pioggie di messaggi in rappresentazione del sistema neocapitalistico americano.

 

Roosevelt vinse la guerra, gli Stati Uniti ne uscirono straordinariamente rafforzati per l’incremento dell’industria bellica. L’ultima immagine del Presidente sulla sedia a rotelle è a Yalta, qualche tempo dopo, con la sua morte finirà l’epoca della rinascita per approdare a quella del dominio…

  

Il Nuovo Ordine Mondiale e la seconda società di massa

           

            Seguendo la divisione del sistema capitalistico in Centro (società industrializzate, economicamente autonome), Periferia (società deboli soggette al controllo del centro), Semiperiferia (società in via d’industrializzazione, poco soggette al controllo del centro), emerge, dalla fine della seconda guerra mondiale, un complessivo stravolgimento dei rapporti di forza internazionali, dove il ruolo di protagonista viene ricoperto dagli Stati Uniti d’America, nazione guida del centro capitalistico. Il suo ruolo si è ulteriormente rafforzato poiché è l’unica nazione uscita indenne dallo sconquasso della guerra, assumendosi perciò l’onere finanziario e militare per la salvaguardia del sistema capitalistico.

 

            Nel 1949 nasce la NATO, organismo internazionale di difesa militare dei valori capitalistici contro la minaccia comunista, che rappresenterà l’altro blocco socioeconomico nelle ripartizione del pianeta.

 

            Negli anni ’50, la guerra di Corea, segna la primissima fase dello scontro bellico tra i due blocchi, quello capitalistico e quello comunista, nelle rispettive aree d’influenza… In occidente invece è guerra fredda, conflitto combattuto a tutti i livelli e che investe di conseguenza l’ambito dei costumi culturali. I mezzi di comunicazione ne diventano strumento essenziale. Vediamo come…

 

            Lo sviluppo delle risorse produttive, è negli anni cinquanta il principale nodo da sciogliere per i governi delle società centrali. Di pari passo un rapido processo di sviluppo industriale, stimolato dagli Stati Uniti coinvolge le stesse verso il raggiungimento di quelle mete collettive strutturate attorno ad un insieme di valori quali la felicità e il benessere per tutti. Questi vengono veicolati dalla diffusione di consumi di massa, strutturando un vero e proprio sistema culturale, che interagisce con quello economico. Entrano così di scena i beni simbolici.

“I beni simbolici (messaggi culturali) che circolano nel mercato culturale hanno una realtà a due facce: sono allo stesso tempo merci e significazioni” (Bechelloni).

            E’ il “dominio” della cultura di massa che si accinge a costruire un sistema mitologico moderno legato intimamente all’immaginario collettivo, rendendolo d’uso quotidiano, poiché prodotto secondo schemi di fabbricazione industriale.

 

            La cultura di massa indirizza la sua simbologia qualsiasi livello della stratificazione sociale, omogeneizzandone i bisogni. E’ la nascita di una nuova civiltà, una società della comunicazione che trova nei paesi del centro capitalistico i punti di più forte irradiazione di quell’ordine socioeconomico contrapposto al comunismo, fondato su quei messaggi che le tecniche di divulgazione offrono alla “massa sociale”, con un impressionante potere di penetrazione.

           Società, cultura, comunicazione sono gli elementi di un sistema che vede nell’esaltazione della “partecipazione collettiva” ai meccanismi di strutturazione della “vita associata”, le fondamenta del modello occidentale. Questa civiltà priva in teoria di divisioni e barriere, almeno per le società del centro, è tale poiché formulata mediante i codici della classe egemone.

 

            Scrive Umberto Eco: “Abbiamo così la situazione singolare di una cultura di massa nel cui ambito un proletario consuma modelli culturali borghesi ritenendoli una propria espressione autonoma (…) Tutti gli appartenenti alla comunità diventano, in misura diversa, consumatori di una produzione intensiva di messaggi a getto continuo elaborati industrialmente in serie e trasmessi secondo i canali commerciali di un consumo retto dalla domanda e dall’offerta”.

 

Il secolo americano

 

            Il “Secolo americano”, è forse lo slogan più interessante per indicare il profondo convincimento sul ruolo dell’America, fulcro della libertà e del benessere planetario.

 

            Dice Mammarella: “Lideologia del neocapitalismo si incentra sulle tesi di una rigenerazione del sistema della libera iniziativa”. Stiamo parlando di quello che verrà definito “capitalismo democratico”, un sistema in grado di dispensare benessere a tutte le classi sociali, grazie ad un aumento della crescita economica. Questi concetti formeranno lo statuto dei ceti produttivi oltre che dell’establishment politico, concetti sposati anche dall’opinione pubblica, per cucirsi addosso il ruolo di popolo guida dei processi post-industriali. Con l’anticomunismo si completa l’assetto della ideologia americanista. Un anticomunismo che attecchisce nel mondo intellettuale, convertendo su posizioni conservatrici molta di quella intellighenzia dalle “simpatie marxiste”, cresciuta durante il New Deal.

 

            Su queste radici va a tessersi la “Caccia alle streghe”, una delle pagine più oscure della storia americana. Un fenomeno che prenderà il nome dal suo promotore, almeno formalmente, il senatore repubblicano Joseph R. McCarty. Ma il maccartismo riflette anche tutta una serie di opportunità politiche manovrate dal partito repubblicano e dal suo leader Eisenhower.

 

            Mammarella: “Davanti al rischio di rimanere ancora esclusi per lungo periodo, i repubblicani, già prima dell’arrivo di McCarty, non esiteranno a ricorrere a qualsiasi mezzo pur di screditare e colpire l’amministrazione Truman e attraverso essa la politica di Roosevelt, e, in ultimo sforzo per scardinare le fondamenta, decideranno di utilizzare l’occasione offerta da McCarty, uomo privo di un passato politico e che s’impone all’attenzione del paese con le sue qualità di tribuno, una grande ambizione e un’eccezionale aggressività”.

 

            La campagna maccartista può essere considerata, in sostanza, una delle più indovinate strategie politico-mediali della storia americana, poiché sull’anticomunismo confluirono gli interessi politico-ideologici dell’establishment politico e dei grandi potentati economici che gestivano i mezzi di informazione. Il più alto esponente dell’industria mediale del periodo fu un personaggio mitico per l’epoca: Henry Luce, marito dell’ambasciatrice americana in Italia, poiché proprietario delle due testate più famose d’America, Time e Life, le cui sedi erano nell’ancor più mitica Madison Avenue di New York City, la strada dove erano accentrate originariamente gran parte delle imprese della comunicazione e comunque simbolo della mentalità imperante dei mezzi d’informazione.

 

            A tal proposito, è bene sottolineare che la società americana stessa nasce sulla condivisione di valori dominanti, che formano il senso stesso dell’essere americano, e che tradizionalmente accomunano sia l’opinione pubblica che il potere politico che ancora i mezzi d’informazione, creando un patto fiduciario fra i tre “poteri”…  

 

            I principi etici su cui era costituito il maccartismo, sono, infatti, fioriti come esperienza di massa attraverso i mezzi di comunicazione, poiché il referente a livello di audience era quello definito da Mammarella dell’ “America Way of Life”, cioè la filosofia americanista che vede come protagonista la cosiddetta “Middle Class”. Gli anni cinquanta segnano l’ascesa della classe media che copre una vastissima area socioculturale, grazie all’espansione dei redditi. Questi infatti determinano una capacità di consumo su cui si basa l’assetto produttivo del sistema statunitense. La televisione in quanto simbolo della neomassificazione produttiva, diventa il principale veicolo dei beni di consumo, che sono poi gli status symbol del progresso americano.      

    

            Mammarella: “Dopo la prima automobile, che ormai è alla portata di tutti molti acquistano o programmano di acquistare la seconda, gli studi universitari per i figli, il viaggio all’estero, la prima e domani la seconda casa, tutto rientra nel novero dei traguardi possibili e il loro raggiungimento appare solo questione di tempo”.

 

La rottura del patto fiduciario

 

            “La televisione serve da teste, da notaio, da autentificazione, da prova finale di ciò che sta accadendo. Usare la registrazione a schermo pieno quando una bomba fa saltare in aria persino un giornalista, è il più straordinario espediente di deposizione sulla realtà” (F. Colombo).

 

            Negli anni sessanta, dopo la morte del Presidente Kennedy emerge un nuovo modello di comunicazione, che vede la televisione come lo strumento consacratorio dei cambiamenti in corso nella società americana.

 

            Nella formula informazioni – immagini – spettacolo, rientra la condizione di un modello narrativo – visuale su cui si strutturano le funzioni del medium.

 

            Ma vi è un momento ben preciso che segna lo stravolgimento nel rapporto comunicazione – informazione televisiva, che innesca una consapevolezza che ancora fino a quel momento non era prassi.

 

            Un momento che tragicamente è in qualche modo legato ancora al nome di Kennedy: l’ assassinio in diretta di Lee Harvey Oswald, colui il quale è stato accusato di essere il responsabile materiale della morte del Presidente.

 

            Oswald viene ucciso mentre sta per essere trasportato dalla polizia per l’interrogatorio. Tra i flashes dei reporter, le domande dei giornalisti, la folla che accalcava, sbucava improvvisamente un uomo, identificato come Jack Ruby, che estraeva la pistola, puntandola al petto di Oswald, sparando un colpo con freddezza impressionante. L’America inorridiva. In quel momento il paese era collegato dai teleschermi. Il popolo americano assisteva in tempo reale all’assassinio di un uomo.

 

Colombo: “Il momento stesso in cui Jack Ruby ha estratto la sua piccola pistola puntandola lentamente contro il petto di Oswald, davanti a tutti, e in tempo reale ha cominciato a far fuoco, ha svelato che non vi è alcuna relazione tra questo strumento e il cinema, o il teatro o i giornali o la letteratura o ogni altro mezzo d’informazione e di comunicazione finora conosciuto. A partire da quel momento è diventato chiaro per tutti che dire bello o brutto di un programma vuol dire usare una categoria di giudizio priva di senso e del tutto irrilevante” (Colombo).

 

            In sostanza quello che viene a verificarsi è che la televisione viene a porsi come tramite della realtà, registrando le variazioni continue di questa che diventa una forma di spettacolo vera e propria, come può essere un quiz, dove le alterazioni e le incognite fanno parte integrante dello show.

 

            Quello che Colombo chiama “Il nuovo paesaggio dello spettacolo di notizie”, si può benissimo estrapolare dalla guerra del Vietnam. Questa infatti farà da stimolo verso un processo che segnerà profondamente il sistema di valori americano come delle comunicazioni di massa. Due momenti che interagiscono sulla integrazione della società americana con i movimenti di massa esplosi alla fine degli anni sessanta.

 

            Colombo: “La vera sede della violenza televisiva sospettata, in America, come altrove, delle più gravi colpe sociali del paese, proveniva dallo spettacolo-notizia della guerra in Vietnam non dal giallo sbrigativo e povero di scrupoli. L’ondata di violenza sociale in coincidenza col pericolo del Vietnam è stato enorme. Un simile rapporto di crescita non si è mai riscontrato in relazione a nessun altro fatto o spettacolo di massa”.

 

            I processi di trasformazione della comunicazione portano al mutamento del ruolo del giornalista che “non è più un osservatore ma un protagonista”. Il reporter segue le grandi manifestazioni per i diritti civili, gli scontri con la polizia, come quelli di Chicago nel ’68, dove addirittura le troupe televisive si infiltrarono tra la folla con i blindati.

 

            E’ questa la fase in cui esce fuori il giornalismo di denuncia che assimila alcuni elementi del giornalismo d’opinione, in quanto struttura narrativa che dal fatto sfocia all’analisi.

            Glisenti-Pesenti: “Il periodo d’oro dei grandi reportage e delle grandi inchieste firmati da nomi celebri del giornalismo scritto e televisivo (…) era coinciso con l’esplosione di fortissime passioni nazionali, suscitate dal movimento per i diritti civili, dalle marce antisegregazioniste, dalle rivolte studentesche, dalla nuova ondata del movimento femminista”.

 

            La televisione assume una importanza rilevante in questo contesto, poiché pur essendo un processo che vede coinvolto il mondo dell’informazione nel suo complesso, attraverso le immagini, gli americani possono entrare all’interno dei grandi conflitti. In Vietnam le telecamere entrano nei campi di battaglia, insieme ai soldati. Tutti possono assistere ai massacri. La televisione diventa per gli americani l’unico referente con cui confrontarsi, esautorando lo stesso governo.

            E’ proprio il ruolo dell’anchorman ad assumere un peso determinante. L’anchorman d’America è Walter Cronkite, un uomo su cui si è tessuta la leggenda che lo vuole il principale artefice della fine della guerra. In effetti, Cronkite, col suo carisma, con la sua capacità di analisi, con la sua personalità, ha inciso in quel tempo profondamente sulla coscienza degli americani, i quali sono riusciti a trovare in lui quella verità che spesso, ai tempi del Vietnam veniva a scontrarsi con i dispacci del governo. Il comandante delle truppe americane distanza in Vietnam William Westreland: “Io cercavo di adempiere le mie funzioni militari evitando politica e diplomazia. Bisogna dire che i militari non sono molto bravi a tenere le pubbliche relazioni. La svolta fu con la sconfitta del Tet. Militarmente la vincemmo noi, ma due giorni dopo il suo inizio Walter Cronkite annunciò in tv che noi avevamo perso, e quella diventò la verità”.

 

            Il Vietnam rappresenta quindi il momento in cui il rapporto fiduciario tra l’opinione pubblica e l’establishment comincia a sgretolarsi. C’è chi sostiene che la guerra fu persa nelle case americane a causa delle immagini trasmesse in Tv.

 

Glisenti-Pesenti: “Il filo di questo rapporto fiduciario di adesione al modello dei valori generali della società democratica americana, si è rotto nel momento in cui il mondo dell’informazione si ritiene tradito, quando il rapporto fiduciario da sempre riconosciuto tra giornalisti e istituzioni politiche viene compromesso”.

 

L’opinione pubblica nel sistema americano non ha il tramite del partito per esprimere il proprio stato d’animo, innesca delle spinte dal basso che esplodono violentemente e che trovano nei mezzi di comunicazione di massa il miglior strumento di raccordo tra il proprio malessere e le scelte del potere politico.

 

            Dice Ben Bradlee, storico direttore del Washington Post: “Il Vietnam ha cambiato tutte le regole. Ci avevano ingozzato di bugie e solo allora ci accorgemmo di come eravamo stati inconsapevoli altoparlanti…”

 

            Sul versante della carta stampata proprio il Washington Post si rese artefice dell’evento che ruppe definitivamente il patto fiduciario tra establishment politico e opinione pubblica…

            Giugno ’72. Negli Stati Uniti sono in corso le primarie per l’elezione del Presidente, che si dovranno tenere nel novembre dello stesso anno. I due contendenti sono il Presidente Nixon e lo sfidante democratico McGovern.

 

            Nella sede democratica, il palazzo del Watergate, vengono sorpresi alcuni uomini mentre manomettono l’ufficio centrale del comitato elettorale. Ma l’effrazione al Watergate non sembra destare particolare scalpore, vista la concitata atmosfera elettorale.

            Sono solo due cronisti del Washington Post a fiutare qualcosa di oscuro: Bob Woodword e Carl Berstin, che con l’appoggio del capocronista Barry Sussman e del direttore Bradlee, tessono una complicata inchiesta tra lo scetticismo complessivo.In breve tempo i due cronisti risalgono a tutta una serie di personaggi che, attraverso dei finanziamenti mascherati come contributi alla campagna elettorale di Nixon, hanno avuto incarichi poco chiari da altri esponenti dell’establishment.

 

            Lentamente i pezzi che i due giornalisti cercano con difficoltà, ma con tenacia, di mettere assieme, formano un percorso che porta direttamente a Nixon.

 

            Ottobre ’72. La televisione inizia ad interessarsi del caso Watergate. Walter Cronkite, dagli schermi della CBS dedica due trasmissioni di news costruite interamente sui montaggi di prime pagine del Post. Infatti per quasi un anno gli unici ad interessarsi al caso sono i due reporter del Post, anche se il Senato, a maggioranza democratica, si avvia ad aprire una inchiesta. Contemporaneamente si apre la seconda fase del caso giudiziario condotto dal Giudice John Sirica. Cadono nella rete parecchi uomini dell’entourage del Presidente, come l’ex ministro della Giustizia Mitcell. In breve tempo seguono le confessioni del consigliere particolare di Nixon, l’avvocato John Dean, che aveva avuto l’incarico dal Presidente di insabbiare il caso, diventato per questo il capro espiatorio.

 

            Aprile ’73. Nixon, rieletto Presidente in novembre, parla in televisione, assumendosi la responsabilità del fatto, chiarendo però che egli era allo scuro di tutto. Ma Dean lo smentisce, facendo luce sulle attività illegali dell’amministrazione, e non solo sul caso Watergate. Saltano fuori dei nastri che proverebbero l’accusa di alto tradimento. Ma Nixon rifiuta di consegnarli, adducendo motivi di sicurezza nazionale.

 

Mammarella: “L’atto che più danneggiò il Presidente di fronte all’opinione pubblica, che nel corso dell’estate aveva seguito con crescente stupore e indignazione le udienze teletrasmesse dal comitato congressuale fu la decisione di Nixon di licenziare Cox*, poiché quest’ultimo aveva rifiutato il compromesso proposto dal Presidente. La reazione del   pubblico di fronte a quest’ultima   manifestazione di arroganza del potere fu tale che Nixon fu costretto a promettere la consegna dei nastri, ma quanto esso avvenne i nastri risultarono compromessi e incompleti…”

 

            Agosto ’74. Richard Nixon si dimette dalla carica di Presidente degli Stati Uniti d’America.                  

 

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*Archibald Cox, docente di Diritto ad Harward, nominato dal Presidente Nixon, su imposizione del Senato, come inquirente speciale per il proseguimento dell’inchiesta giudiziaria.

 

La New Television e la terza società di massa

 

            Il 1980 è l’anno che possiamo considerare un vero e proprio momento di “trapasso generazionale”, perché nasce il primo esperimento di massa di televisione via cavo. Si tratta del “Cable News Network”, ma il mondo lo saprà identificare meglio come “CNN”.

 

            Le caratteristiche sono due: trasmettere appunto via cavo, attraverso il satellite, Ted Turner, il vate della CNN, ne ha uno tutto suo, e trasmettere informazioni in tutto e su tutto il mondo 24 ore su 24.           

 

            Da quarant’anni tutto il mondo guarda all’America, soprattutto l’Europa, ma l’America non guarda il mondo. Cioè a dire: fino a quel momento non esistono negli Stati Uniti informazioni sulle altre società occidentali, e questo per un retaggio del sistema America, posto al centro al centro del mondo.

 

Ma cosa cambia nei processi produttivi dell’informazione?

 

Colombo: “Irrorati di materiali, arricchito di immagini … l’utente prende in mano la situazione e si aggira nel nuovo mondo tenendo i professionisti dell’informazione in poco conto, perché capisce che essi sono commessi di un supermercato. Puntano in questo o quello scaffale, ma non sono gli eroi della storia…”

 

            Se nella seconda società di massa, è la televisione stessa che si avvicina al fatto a costituire l’evento, con la New Television la Tv non è più un elemento esterno al vissuto collettivo. Non esiste più eccezionalità nel fatto stesso che la televisione si avvicini ad un evento. La rappresentazione della quotidianità ha molte facce e tutte eccezionali, soprattutto se è un quotidiano che appartiene non soltanto alla società statunitense ma a quella planetaria. E’ il cittadino a scegliere secondo i propri bisogni. La televisione deve soltanto mettergli a disposizione quanto più materiale possibile. Sono questi i nuovi canoni della concorrenza che la CNN ha innescato, imponendo appunto ad altri networks la revisione modulare del palinsesto.

 

            La New Television ha reso l’audience praticamente l’unico programmista accreditato alla scelta delle trasmissioni, e questo grazie all’ormai imposizione fenomenologia della Tv via cavo.

            Un ultima considerazione va fatta sugli elementi del palinsesto. Con la terza società di massa è definitivamente caduto il muro che separa l’intrattenimento dalla fiction e dall’informazione. Muri che hanno iniziato a sgretolarsi con la moltiplicazione della pubblicità all’interno dei quiz, come delle soap opera, come dei telegiornali, uniformando il prodotto ai medesimi meccanismo ritmici. Ma ancora di più questo processo è stato atomizzato dalla linea di congiunzione posta tra realtà e tempo libero, linea che pian piano è andata a scomparire. Cioè, è stata annullata quella separazione rigida che si frapponeva tra la cultura del moderno loisir e il significato più tradizionale dell’informare, per cui il quotidiano, la realtà, filtrate dal medium, sono state costruite su una commissione di generi cuciti in un tessuto narrativo unico. Questo è stato possibile perché la rappresentazione della realtà possiede la capacità di intrattenere, tenere col fiato sospeso e informare allo stesso tempo.

 

            E’ infatti il palinsesto mobile a costituire l’ossatura della trama di notizie, a seconda degli avvenimenti che si susseguono nel mondo, il network segue l’evento in diretta con la continuità attraverso cui questo si sviluppa. Lo spettatore ha cos’ la possibilità di entrare direttamente dentro l’evoluzione della vicenda, ma può anche costruirsi il suo palinsesto, se crede opportuno, rifacendosi alle registrazioni o agli approfondimenti.

 

La Società planetaria liberale dell’informazione

 

            L’avvento della Tv via cavo rappresenta l’aspetto più emblematico di una complessiva rivoluzione delle tecnologie comunicative, a questo devono aggiungersi altri fenomeni d’innovazione tecnologica come la “Pay-Tv” o la “Pay per View. Sono prodotti televisivi a pagamento, funzionanti attraverso il sistema del “decoder”. In tal modo l’audience ha la possibilità di ricevere un tipo di programmazione che esso stesso provvede a selezionare, fruendone senza interruzioni pubblicitarie.

 

            Bisogna dire che questo sviluppo dei nuovi sistemi di comunicazione ha innescato una grandissima crescita degli investimenti nel settore audiovisivo, che ha dato vita a nuove holding multimediali, generando nuove ricchezze.

 

            L’impetuosa crescita dei nuovi sistemi di comunicazione è stata funzionale un’altrettanto impetuosa crescita dei flussi di comunicazione, anzi, potremmo dire “sovraccarico dei flussi di comunicazione”.

 

            A cavallo tra gli anni settanta e ottanta le spinte sociali nel mondo occidentale hanno provocato una “massificazione” delle informazioni, difficile da controllare con le vecchie metodologie. Informazioni su ogni cosa e da ogni luogo, in tempi sempre più stretti, che hanno avuto bisogno di tecnologie sempre più elaborate per essere canalizzate e gestite.

 

            E’ alla fine degli anni ottanta, appunto, che nasce la “Società planetaria liberale dell’informazione”, costruita sulle macerie dell’Ordine mondiale uscito fuori da Yalta. Dal momento in cui cade il Muro di Berlino, la televisione si trasforma in mezzo liberatorio per la caduta dei regimi comunisti della cortina di ferro.

 

Giovanni Sartori: “Se c’è stata una rivoluzione pacifica, è stata probabilmente perché era vista in televisione. Le autorità che avevano smesso di credere nel loro potere non hanno avuto il coraggio di schiacciarlo con uno spargimento di sangue. Lo stesso vale per la Cina: fino a quando c’era la televisione la rivolta era protetta, non appena si sono spente le telecamere è stata annientata sulla piazza Tien An men”.

 

            Ma dalle macerie di Yalta, una volta acclusi a se gli ex paesi comunisti, la società planetaria liberale dell’informazione erige un nuovo steccato. Se la televisione contribuisce all’annientamento indolore dei regimi dell’est europeo, il nuovo conflitto socioeconomico sarà tra nord e sud del mondo: è la guerra del Golfo…

 

            In un certo senso questa fase segna il delinearsi quasi compiuto del Villaggio globale, di McLuhan, che, tradotto in termini di sistema economico, diventerà la “società globale”. Questa da un lato può essere strumento liberatorio, determinante per le democrazie industrializzate, ma al tempo stesso può generare squilibrio nel rapporto col sud del mondo, che viene estromesso dai flussi e dal sovraccarico di informazioni.

 

            Con questa fase si entra, insomma, in una epoca dove la gestione delle informazioni rappresenta la nuova ricchezza.

  

La Società in rete e la quarta società di massa

 

            Nell’ultimo decennio del secolo la società planetaria dell’informazione riformula ancora una volta i significati di appartenenza sociale. I paradigmi di McLuhan sono ormai superati, ma non l’approccio epistemologico della teoria del medium, questo perché il disegno sociale che esce dalla guerra del golfo pone al centro dell’universo sociale sempre più il concetti di comunicazione e informazione come strutture portanti della società globale.

 

            Se da un lato il processo di globalizzazione economica è il risultato di un allargamento sempre più strutturato tra le aree del mondo evoluto, c’è da dire che semanticamente il concetto di globalizzazione non è del tutto preciso. Questo perché la capacità di circuitazione delle merci non copre, come nel caso delle informazioni, tutto il pianeta   ma una parte di esso, tagliando fuori le aree non industrializzate del terzo e quarto mondo.

 

            Su questo scenario geopolitico il rapporto economia-informazione si fa sempre più stretto, e questa situazione sociale è determinata dalla nascita di un nuovo sistema di comunicazione: Internet.

 

            Ma che cos’è Internet? Non è un medium nel senso tradizionale del termine, poiché unisce il “sistema elettrico” del personal computer, nato originariamente per l’accumulazione di dati e informazioni, al medium telefonico, che non è un medium elettrico. Ecco che comunicazione, informazione, economia trovano una loro soluzione di continuità tra il passato e il futuro, dove questa volta ad essere detentori dei processi di produzione non sono grandi editori o imprese, ma l’individuo in quanto tale. Ogni cittadino, alfabetizzato ad Internet, possiede una risorsa potenziale sia nella possibilità di acquisire e scambiare informazioni che possono tradursi in valore economico, ma anche produrre economia in se stessa. E’ la nascita della “New Economy”, attraverso cui l’individuo può capitalizzare risorse economiche, attraverso la vendita di servizi produttivi.

            In tal senso la New Economy ha innescato un processo che negli anni è destinato a riconfigurare il sistema economico capitalistico: siamo già avviati, insomma, nell’ “era dell’accesso”, dove chi possiede i codici di accesso al sistema, individuo o azienda che sia, può capitalizzare risorse attraverso la gestione dei servizi e delle informazioni. Non più, dunque, modi di produzione ma gestione dei servizi.

 

            Ma dal punto di vista sociologico in che termini cambiano i rapporti interpersonali tra gli individui, attraverso la comunicazione in rete?

 

            Diciamo innanzitutto che il tipo di società che si prospetta è una società compartimentata, dove all’interno delle proprie mura domestiche è possibile lavorare, comprare, vendere, strutturare rapporti interpersonali, addirittura intrattenere rapporti sessuali. Questa situazione sociale stravolge oggettivamente i canoni della relazione individuo-società, dove la velocità dei tempi di esecuzione è tanto rapida al punto da riconfigurare lo scenario sociale in rapporto non alla comunicazione interpersonale ma alla comunicazione interpersonale mediata dal sistema.

           

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